sabato, Novembre 23, 2024
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Emergenza medici di base, in Veneto sono quasi 640 le zone “carenti”, l’86% in più del 2019

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L’allarme dello Spi Cgil regionale: «Tantissimi anziani non sanno più a chi rivolgersi» 

MESTRE – Circa 640 zone carenti, il doppio rispetto al 2019, più di 1.500 assistiti per ogni professionista, superiore alla media italiana, circa 1.300 figure mancanti da qui ai prossimi sette anni, pochissimi studi “integrati”, migliaia di pazienti, soprattutto anziani, senza punti di riferimento. Si fa sempre più allarmante, in Veneto, la situazione dei medici di base, come conferma il consueto report di aggiornamento realizzato dall’Ires Veneto in relazione ai servizi socio-sanitari offerti dalla nostra regione.  

«Siamo molto preoccupati soprattutto per i nostri anziani – sottolinea Elena Di Gregorio, segretaria generale del sindacato dei pensionati (Spi) della Cgil del Veneto – ci sono zone completamente scoperte, soprattutto nei comuni e nelle frazioni più piccole, dove i pazienti, in particolare quelli anziani, non sanno a chi rivolgersi per farsi curare oppure devono affrontare distanze insostenibili per trovare un medico. La programmazione della Regione su questo fronte è stata davvero deficitaria e la colpa non è del Covid perché la pandemia ha solo fatto esplodere una situazione già di per sé drammatica».  

IL QUADRO DELLA SITUAZIONE. Dal report emerge in modo chiaro come la questione sia davvero urgente. Le zone carenti di medici di base sono passate dalle 343 del 2019 alle 639 di adesso (nel 2021 erano 561), lasciando di fatto “scoperti” centinaia di assistiti, soprattutto anziani. A inizio 2022 in Veneto c’erano 2.826 medici di famiglia in servizio, 1.519 pazienti per medico (quando il rapporto ottimale sarebbe di uno ogni mille), contro un fabbisogno potenziale di 3.303 professionisti. Non solo. Si calcola che nella nostra regione nei prossimi sette anni usciranno dal servizio, soprattutto a causa dei pensionamenti, 1.878 medici e ne entreranno solo 595. Se fosse così, diventerebbe impossibile seguire i pazienti.

MEDICINA INTEGRATA. Un modo per tamponare almeno in parte il problema sarebbe la nascita degli studi di medicina integrata, strutture con più medici e una segreteria comune. La delibera di giunta numero 476 sul piano di sviluppo delle cure primarie prevedeva che nel biennio 2018 – 2020 oltre il 60% dei professionisti si aggregassero fra loro. Invece al 19 maggio 2020, così come indicato dallo stesso Palazzo Balbi, le strutture integrate erano solo 77 con 656 medici, il 22% del totale.  

CRONICITÀ. Il quadro si fa ancora più preoccupante tenendo conto delle tante persone anziane, soprattutto over 80, che devono fare i conti con più malattie croniche e che avrebbero bisogno di un filtro quasi costante con il medico di base. Ricordiamo che, secondo il rapporto Ser del 2020 sulle malattie croniche, il 47% della popolazione veneta ha, almeno, un codice di diagnosi di patologia acuta o cronica. Non solo. Un terzo della popolazione complessiva (34,1%) presenta almeno una malattia cronica; tra essi il 51,1% ha una singola malattia, il 23,2% due patologie croniche compresenti, il 7,5% 5 o più patologie.  

PROPOSTE. Secondo Di Gregorio, «ora la Regione dovrebbe correre ai ripari per recuperare tutte le carenze delle passate programmazioni. Le borse di studio finanziate dal Veneto nel 2020 (80) e nel 2021 (306) risultano del tutto insufficienti per recuperare i ritardi accumulati, ma anche tardive dato che quei medici saranno operativi nel 2025. Palazzo Balbi deve attivarsi per il finanziamento di un numero più elevato di borse, noi proponiamo almeno 600, altrimenti fra qualche anno ci troveremo in una situazione ancora più ingestibile. Bisogna poi spingere verso una accelerazione delle aggregazioni fra medici di medicina generale, solo così si possono tamponare le falle del sistema e garantire un servizio costante a tutti gli assistiti quando uno dei medici non è più in servizio in modo temporaneo o permanente». Lo Spi chiede anche da tempo una maggiore integrazione dei MMG nel sistema sanitario, a partire dall’inserimento nelle nuove Case di Comunità e dalla revisione del loro rapporto di lavoro: oggi, di fatto, sono dei liberi professionisti mentre dovrebbero diventare dipendenti delle aziende sanitarie, visto il loro ruolo strategico nella filiera della cura delle persone. 

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